Io oggi sono a questo colloquio ma non mi interessa conoscere di più del lavoro. Ho già letto semmai il titolo, più che necessario per conoscere la mansione.
Sono qui, con due ore di sonno e vi dico, voglio sapere le vostre storie. Da bambini eravate amati o piangevate ore prima di ricevere attenzioni? Vostro padre è ancora in vita? È bravo o è una di quelle persone che non si deve fare arrabbiare? Le vostre madri invece? Sono anafettive o vi hanno dato l’amore di questo mondo?
Vorrei sapere se siete sposati e come vi comportate in famiglia. Aiutate le vostre mogli o siete dei parassiti nullafacenti?
Ti guardo e penso che la calvizia tradisca la tua giovane età. Avrai sui trent’anni ma i capelli retrocedono a grandi passi, mi dispiace. Hai gli occhi buoni, tanta esperienza ma ai tuoi capelli sembrerebbe non importargliene. Loro retrocedono e in quello spazio che si crea leggo riflessa la delusione. Una grande carriera ma senza capelli sulla testa, dici che è un pensiero superficiale?
Perché allora invece di parlare di questo, mi chiedi della mia esperienza. La mia vita è un continuo fuggire di casa. È la ricerca di uno spazio sicuro ovunque nel mondo.
Ce ne sono tanti di spazi sicuri, di bunker o stanze nei quali i tuoi diritti di persona non sono calpestati; di porte che rimangono chiuse o si aprono con gentilezza, che si possono chiudere, a chiave.
Nel mio spazio sicuro posso cucinare, utilizzare il forno, tutti i fornelli, stendere la tovaglia sul tavolo, mangiare tutte le cose in cucina, rimanere in sala, guardare la tv, fare la lavatrice con serenità, pulire il bagno, restare in camera sdraiata sul letto a rilassarmi, invece di stare in tensione. Nel mio spazio sicuro non ci sono flashback di me bambina gettata a terra, di calci nella schiena.
Non c’è nemmeno la me adulta, costretta a essere umiliata, a essere chiamata con gli epiteti della strada “cogl***”, “vaffan***”, “non vali un ca***”, tu che segui la religione dei pedofili, tu che sei stupida, tu che sei e basta.
Oggi al colloquio non mi avete chiesto del mio spazio sicuro. Ve ne avrei volentieri parlato, di come la notte mi sveglio e prego tranquilla; e di come possa farlo di mattina, di pomeriggio e di sera senza la paura che qualcuno possa entrare e insultarmi.
Un calcio al tappeto, un insulto, le continue grida per minuti interminabili, parole che non si possono ripetere. Questo nel mio spazio sicuro non c’è. Da un angolo afferro l’abito per la preghiera, con cui mi preparo in una manciata di secondi. Il tappeto viene lasciato cadere a terra, e con serenità ci prego.
Quelle sono preghiere tranquille, senza le chiamate di chi urla al telefono e si sente dall’altra parte della casa o del televisore, che osserva la scena pietosa di un uomo che mangia urlandogli contro. “Questi sono i tuoi amici”, viene urlato mentre si parla dell’Isis.
Nel mio spazio sicuro ci sono io e non c’è lui.
Se il colloquio è terminato, fatemi sapere anche se non avete risposto a nessuna delle mie domande.
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Salam ailekoum, Ale
Con le tue parole sei riuscita a dipingere un quadro molto potente: mi sembrava di essere io in quel colloquio, distaccata, focalizzata su dettagli quasi inutili mentre l’anima ancora piange per il trattamento abusivo subito, anche se ora ha il suo posto sicuro. Complimenti ❤️
Grazie sara, you touched the point ❤️